IL LAVORO COME PROBLEMA FILOSOFICO   
da Aristotele ad Adam Smith
A cura di: Virgilio Cesarone
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Lezione 6

I fini del lavoro

Abbiamo visto nella lezione precedente come Scheler abbia introdotto nella dimensione del lavoro il principio del dovere: esso sorge dalla consapevolezza, da parte di tutti i lavoratori, del fatto che con il proprio lavoro individuale essi concorrono a migliorare le condizioni sociali di tutti; gli stessi in questo modo sono parte di una totalità, che rende i fini oggettivi comuni, distinti e ben visibili di fronte a quelli individuali. Ma come avviene la condivisione di un fine oggettivo da parte di una moltitudine di uomini?

Scheler fa l’esempio della Germania e della possibilità di giungere a tale condivisione attraverso la costituzione che garantisce il suffragio universale. Certamente il suffragio universale abbisogna di uno sforzo per l’educazione di coloro che sono chiamati alle consultazioni elettorali; una educazione che però, secondo Scheler, dovrà basarsi su di una filosofia pratica, intesa in un senso ampio, con l’insegnamento di principi etico-politico-giuridici.

Rispetto a questo problema non sembra al filosofo tedesco che la teoria socialista abbia fornito una risposta, anzi pare che abbia cercato di nascondere l’antinomia della domanda che coglie il problema dell’ordinamento sociale contemporaneo, e cioè: “Come è possibile che si dia un uomo che proprio in quanto ‘lavoratore’ forma politicamente e giuridicamente i fini oggettivi?” (Lavoro ed Etica, p.84). il problema è quello già visto del rapporto tra inclinazioni soggettive e fini oggettivi, perché mai un individuo dovrebbe cercare di inserirsi in un sistema organizzato di fini, altro rispetto a quelli che sono i suoi più propri desideri?

La teoria socialista del lavoro, con il suo assunto sulla capacità del lavoro di generare di per sé valore, di creare una organizzazione, e per il fatto di costituire addirittura una sovrastruttura formata da politica e diritto, ha reso anche l’attività politica e legislativa una semplice appendice dell’attività lavorativa. Non vi è posto per la considerazione del dovere, che è tipica delle organizzazioni dello stato borghese. Scheler nota in ciò una palese contraddizione, infatti la teoria socialista rimane in un certo senso “liberale”, per il fatto di esecrare la presenza di uno stato assoluto, ma per altro verso si ritiene desiderabile ciò che uno stato di tal genere riesce a compiere.

Detto in altri termini: nel momento in cui si chiede che il lavoro consegua una parità politica, si ritiene che esso di per sé sia distinto dai fini oggettivi, quindi vi sarebbe una sorta di contraddizione rispetto al presupposto fondamentale della teoria socialista secondo la quale il lavoro è capace di autorganizzarsi e di darsi fini oggettivi.

Le ultime riflessioni di Scheler, lo ricordiamo, erano volte alla chiarificazione della domanda sul perché del lavoro, o meglio alla prima parte della suddivisione ulteriore della domanda riguardante la posizione del singolo prodotto all’interno della totalità oggettiva (si veda Lavoro ed Etica, p.77). Ora il filosofo tedesco affronta la seconda parte della domanda, quella riguardante gli uomini, una domanda “sulle loro specifiche qualità e sui bisogni peculiari per i quali si lavora” (Ibidem). Vi è un rimando a questi bisogni propri dell’uomo nel moderno concetto di lavoro? Tale questione non sembri peregrina, constatata la diversità della attività lavorativa odierna rispetto a quella delle epoche passate, che si formava intorno al mero soddisfacimento del bisogno naturale.

Innanzitutto Scheler distingue “il destino reale di un bene e l’intenzione di chi lo ha prodotto” (Ivi, p.85). Posta tale distinzione, nella misura in cui diminuisce la possibilità di afferrare il destino di un bene, diminuisce anche la possibilità di comprendere la direzione del prodotto, la sua intenzione, vale a dire l’impiego finale, attraverso cui il prodotto porta a compimento i suo scopo e dà soddisfacimento ai bisogni concreti.

L’esempio classico per questo caso è quello del lavoro su commissione e di quello che invece risponde a bisogni, per cui è sempre già possibile comprendere la destinazione del prodotto. In quest’ultimo caso è evidente la moralità o l’immoralità di una produzione, per cui cattiva è la produzione che segue bisogni immorali. Un esempio dei nostri giorni, facilmente comprensibile, è quello della pedofilia: chi produce immagini per la fruizione di materiale pornografico con bambini, sa benissimo che il suo lavoro non potrà che avere una destinazione immorale.

Tuttavia tali casi di lampante evidenza non sono frequenti, non è così semplice infatti dedurre in modo così semplice la qualità morale del fine e quindi del prodotto. Il problema è che la moralità o meno degli uomini non può essere vista se non in un contesto di relazionalità. Ora, dato ciò per assunto, è sempre più difficile, stando alle attuali condizioni in cui si svolge l’attività lavorativa, cercare di giudicare moralmente il lavoro. Sono ormai del tutto sporadici i casi in cui un lavoratore conosce il committente del proprio lavoro e la destinazione di ciò che è stato prodotto. Nella maggioranza dei casi il lavoratore ne è completamente ignaro; non solo, ma la stessa sua opera prodotta abbisogna di una ulteriore manipolazione; oppure qualora questa cosa prodotta sia immessa sul mercato è del tutto escluso che il lavoratore possa sapere quali siano i bisogni cui corrisponde il prodotto, e quindi cade la possibilità di riuscire a cogliere la moralità del tutto.

Certamente si potrebbe configurare il destinatario di questi beni come un qualcosa che si chiama società oppure umanità. Ma in realtà questi simulacri non sono che nomi e grandezze trascendenti rispetto ad un intelletto individuale, una sorta di figure mitologiche secondo Scheler.

È tuttavia ben comprensibile, agli occhi del filosofo tedesco, che queste figure siano diventate qualcosa di creduto come reale. Il lavoratore ha bisogno di giustificare la propria attività. In questo modo evita l’idea che la sua opera, ciò che gli è costato fatica e dedizione, sia abbandonata nelle mani di un mercato, fatto esclusivamente di domanda e di offerta. Questa sorta di “idolo” è preferibile lasciarlo in ombra e preferire “la società”, figura sicuramente misteriosa, ma più rassicurante. Ma una domanda morale sulla società per Scheler non è più proponibile. Essa è diventata una sorta di principio supremo a cui commisurare la propria moralità, un summum bonum in riferimento al quale ogni singola individualità perde la sua luce e ombra morale.

Tutto questo perché ormai, a parere di Scheler, vige l’idea che la moralità risieda nell’associazione degli uomini, ovvero l’associazione di per sé è morale, a prescindere dalla moralità dei singoli. La conseguenza sarebbe allora che tutti i singoli individui potrebbero essere moralmente cattivi, senza per questo inficiare la bontà della società. Una tale concezione, che crede alla società come posta sulle altezze del bene, è per il filosofo tedesco una assurdità, frutto di un realismo concettuale determinato soprattutto da una formazione culturale di tipo scientifico-naturale. È chiaro che l’obiettivo polemico di Scheler è rappresentato dal Positivismo comtiano, con la sua esaltazione della nuova scienza, la sociologia, su basi puramente scientifico-naturalistiche.

Ma a ben riflettere tale credenza nel bene delle società ha nel mondo moderno la sua ragion d’essere. Essa risponde infatti secondo Scheler alla domanda di ogni lavoratore moderno, il quale non sa perché lavora, ma vorrebbe lavorare per il bene. Questa giustificazione morale del lavoro d’altro canto, non fa che rafforzare l’idea che il lavoro in sé possieda un valore morale immanente. Tuttavia Scheler rifiuta l’accostamento tra ragione sociale e bene, che ai suoi occhi appare immotivato. Quindi cita Stirner, il quale nel suo L’unico e le sue proprietà aveva criticato il concetto di umanesimo di Feuerbach, per ricordare che la cosiddetta umanità è formata da tanti diversi individui, Tizio, Caio e Sempronio.

Quindi secondo Scheler “lavorare per l’umanità è un buon lavorare solo quando si è precedentemente stabilito che questa società è composta di uomini buoni” (Ivi, p.89). infatti la società, come il singolo, non sono giammai un principio in base al quale qualcosa è morale, ma sempre il contenuto materiale, l’oggetto della valutazione morale.

Da quanto è stato detto finora appare evidente che per Scheler non vi è nessuna certezza che i prodotti, frutto del lavoro, servano per fini morali. Per questo motivo il filosofo tedesco afferma che ogni lavoratore ha il dovere di assicurarsi che il proprio lavoro sia indirizzato verso fini morali.

Certo, Scheler è conscio della poca praticabilità del principio, ma l’obiezione sarebbe contro l’applicazione di fatto, e non contro il principio stesso, il quale non viene affatto toccato nella sua legittimità. Qual è allora il mezzo migliore per esercitare tale funzione di controllo? Ogni lavoratore, come cittadino di uno stato, attraverso la funzione che proviene dall’essere tale, deve provvedere affinché questo accada. Il modo proprio della sua funzione di cittadino è quello della scelta di determinati rappresentanti, i quali si faranno garanti della persecuzione di quei fini nei quali il lavoratore crede.

È dunque la rappresentanza democratica il mezzo in cui, nel mondo contemporaneo, il lavoratore può riuscire ad indirizzare moralmente la propria attività lavorativa. Quindi il lavoro riceve una sua moralità esclusivamente se il lavoratore riesce a farsi carico di questa responsabilità, ovvero segue l’utilizzo del proprio prodotto attraverso i mezzi che la vita civile gli concede. Se invece si abbandona a quelle forze misteriose, identificate come società o umanità, non può certo ritenersi moralmente buono, Scheler rifiuta l’idea che sia moralmente buono il lavoro abbandonato ai “bisogni della società”, così come riteneva non un valore il lavoro in sé.

Inoltre l’idea di rispondere ad un bisogno della società non può mascherare di bontà un bisogno che moralmente è riprovevole. Tantomeno può accettarsi la massima che lavorare è bene se risponde a bisogni veri. I bisogni infatti sono sempre “veri”, in quanto sono sempre riconosciuti come tali da una coscienza, anche se malvagia. L’idea di un bisogno vero e reale ha fatto il suo tempo secondo Scheler; essa era legata ad un impianto metafisico, di cui però non vi è più traccia nel mondo contemporaneo.


Theorèin - Ottobre 2005